Aumento dei consumi

Negli ultimi decenni, sono stati prevalentemente 3 i grandi cambiamenti nella nostra dieta che hanno avuto un impatto fortemente negativo sul Pianeta: 1) l’aumento del consumo di carne, 2) l’aumento del consumo di cibo industriale e 3) l’aumento nei consumi di cibi esotici. Tutto questo, unito con un aumento negli acquisti di prodotti surgelati, di prodotti con imballaggi troppo elaborati e di prodotti che richiedono un grande impiego di energia durante la loro lavorazione o durante il loro trasporto , dimostra come le scelte alimentari dei consumatori provocano un decisivo ed eccessivo impatto ambientale.
Sarà possibile ridurre tale impatto solo attraverso una maggiore consapevolezza sui danni che provochiamo all’ambiente con le nostre scelte alimentari.

Aumento del consumo di carne

Nonostante l’ingente impatto ambientale, il consumo di carne pro capite è in continuo aumento. Secondo la FAO, dal 1967 la produzione globale di pollame è aumentata di circa il 700%, quella di carne di maiale del 290%, di pecora e capra del 200% ed infine quella di carne di bovini e bufali del 180%. Questo aumento della produzione ha, a sua volta, imposto una pressione sempre più elevata sulle risorse limitate del pianeta ed in particolare sulla disponibilità di acqua, terra, mangime, fertilizzanti, combustibile e capacità di smaltimento dei rifiuti. I prodotti derivati dagli animali forniscono oggi il 20% delle calorie consumate nei paesi sviluppati e circa il 13% a livello mondiale. In media, nei Paesi in Via di Sviluppo si consumano 24 kg di carne pro capite l’anno, mentre nei paesi sviluppati ben 65 kg. Tuttavia tali trend non si sono manifestati in maniera uniforme a livello globale; la produzione è aumentata rapidamente in Asia orientale e sud-orientale (in Cina soprattutto), in America latina e nei Caraibi, mentre la crescita nell'Africa sub-sahariana è stata lenta. Oggi in Africa il consumo medio di proteine animali è meno di un quarto di quello europeo, dove invece il consumo di proteine animali copre circa l’80% del fabbisogno proteico totale, indicando addirittura un sovra-consumo di prodotti zootecnici. Secondo la FAO, in Italia il consumo di carne è aumentato di oltre il 190% in meno di 50 anni, passando da un consumo pro capite annuo pari a 31 kg nel 1961, a 91 kg nel 2007 (pari a circa 90 kg a testa all’anno). Confrontando poi i consumi effettivi con quelli raccomandati, la ricerca pubblicata nel 2010 dall’INRAN, l’Istituto nazionale di ricerca per gli alimenti e la nutrizione, mostra come il consumo di carni rosse in Italia sia di circa 700 g a settimana contro i circa 400-450 raccomandati. Tale raccomandazione viene fatta al fine di prevenire patologie e alcuni tipi di tumori, non solo quindi è auspicabile ridurre i consumi di carne da un punto di vista ambientale, ma anche da un punto di vista sanitario. Infine, più carne mangiamo più grano, soia e altri cereali dovremo produrre. La FAO stima che il consumo di carne crescerà di circa il 73% entro il 2050, mentre il consumo di prodotti caseari salirà del 58% rispetto ai livelli odierni, richiedendo con ulteriore sovra sfruttamento di suolo, acqua, ed energia. Stiamo assistendo dunque ad un’allarmante perdita di servizi ecosistemici, fra cui in particolare le risorse idriche, ed è impossibile immaginare di poter soddisfare la domanda prevista in futuro allevando il doppio del pollame, il 50% in più di bovini e il 40% in più di suini, sfruttando lo stesso livello attuale di risorse naturali.

Aumento del consumo di cibo industriale

Le elevate richieste energetiche associate alla meccanizzazione dell’agricoltura e all’uso massiccio di prodotti chimici, sono aggravate dagli ulteriori costi energetici determinati dai processi di produzione alimentare industriale. Molto spesso non ci soffermiamo a considerare il rapporto fra l’energia consumata per la produzione e/o preparazione di un alimento, e l’energia che tale alimento ci fornirà. Se nel 1910 questo rapporto era di circa uno a uno (cioè l’energia che ci dava ogni alimento era pari all’energia spesa per produrlo), oggi il più delle volte si arriva a superare il rapporto di 100 a uno, che vuol dire che per produrre un alimento viene utilizzata 100 volte l’energia che quell’alimento fornisce nel momento in cui viene consumato. Si assiste quindi ad un paradosso: l’energia immessa lungo la catena alimentare per produrre e rendere disponibile il cibo (dal campo alla tavola) supera l’energia contenuta nel cibo stesso! Una dieta ricca di alimenti di origine industriale presenta un’elevata quantità di cibi che hanno subito trasformazioni (raffinazione, estrazione, precottura, conservazione, surgelazione) la cui produzione insieme allo smaltimento degli imballaggi provoca un impatto non indifferente sull’ambiente. Secondo i dati dell’Ue, la produzione di imballaggi (che risponde anche a esigenze di marketing, oltre che di igiene e trasporto) è in costante aumento soprattutto in Italia e costituisce quasi la metà dei 532 kg pro capite di rifiuti annui. La plastica in particolare, che dura secoli, non è priva di effetti tossici né in fase produttiva né di smaltimento, tanto più quando abbandonata nell'ambiente. Ridurre la plastica è un traguardo non troppo complesso che passa per azioni semplici con un grande risultato ambientale: bere l'acqua del rubinetto, acquistare prodotti sfusi o alla spina, evitare prodotti usa e getta, usare buste durevoli invece dei sacchetti monouso.

Aumento del consumo di cibo esotico

Se i gamberi che vi apprestate a cucinare sono stati pescati in India, confezionati in Scozia e distribuiti in Sicilia, siete di fronte al problema! Secondo Coldiretti, ogni pasto in media percorre quasi 2.000 km prima di arrivare sulle tavole degli italiani! Fino all’era industriale il cibo consumato veniva prodotto per lo più “dietro l’angolo”, cioè proveniva da allevamenti, mari e terreni vicini al consumatore, oggi, invece, con l’avvento delle multinazionali, il processo di produzione degli alimenti è sempre più dislocato in vari Paesi del mondo, con il risultato che buona parte del cibo che consumiamo quotidianamente proviene dall’estero, basti pensare, ad esempio, agli asparagi prodotti in Cile o alle carote importate dal Sud Africa. Questi metodi di produzione dislocati tra vari Paesi hanno come risultato un peggiore sfruttamento delle risorse naturali nonché una peggiore qualità dei cibi prodotti. Tra il 1980 e il 2006, il volume totale delle esportazioni di carne è triplicato raggiungendo i 32.1 milioni di tonnellate, quello delle esportazioni di prodotti lattiero-caseari è più che raddoppiato toccando i 90 milioni di tonnellate, e le esportazioni di uova sono quasi raddoppiate. Il consumo di prodotti come vino australiano, prugne cilene, uva Sudafricana e carne argentina o brasiliana, che devono percorrere migliaia di chilometri prima di giungere sulle nostre tavole, può essere validamente sostituito dal consumo di prodotti "nostrani": l'Italia vanta oltre 400 vini nazionali DOC, DOCG e IGT, ha il primato europeo nella quantità e varietà dell'ortofrutta, e per quanto riguarda la carne non mancano prestigiose razze storiche come la Chianina. Peraltro l’impatto ambientale aumenta in modo particolarmente significativo se i prodotti vengono importati per via aerea ed in aggiunta al trasporto, un aumento rilevante dell’impatto è causato dalla coltivazione dei prodotti in serra. Per fare un esempio, la coltivazione in serra di pomodori consuma 70 volte più CO2 rispetto alla normale coltivazione in campo.