L'acqua è fonte di vita e costituisce il nesso che lega tutti gli esseri viventi su questo Pianeta. Seppur rinnovabile, l'acqua dolce superficiale e sotterranea è una risorsa limitata e vulnerabile che può diventare scarsamente disponibile.

La scarsità idrica è in continuo aumento, così come la salinizzazione, l'inquinamento delle falde acquifere, il degrado delle risorse idriche e in generale degli ecosistemi ad esse legati. I bacini idrici interni subiscono l'effetto combinato di una riduzione dell'afflusso d'acqua e di un maggiore carico di nutrienti, soprattutto azoto e fosforo. Molti fiumi non arrivano a raggiungere le foci naturali e le zone umide stanno scomparendo.

Nel mondo, nelle principali aree di produzione cerealicola, l'ingente prelievo idrico di acqua di falda sta riducendo notevolmente le riserve sotterranee, determinandone il progressivo esaurimento, con conseguenze non solo sugli ecosistemi ma anche sulle comunità rurali che da esse strettamente dipendono. Ciò rappresenta una crescente minaccia per la produzione alimentare locale e globale.

Crisi idrica mondiale

Nonostante la grande quantità di acqua sul Pianeta (1,4 miliardi di km3), solo il 2,5% (35 milioni di km3) del volume totale è costituito da acqua dolce che, inoltre, per circa il 70% (24 milioni di km3) è imprigionata sotto forma di ghiacci e neve permanenti nelle regioni montuose, antartiche e artiche. Il restante 30% (0,7% delle risorse idriche totali) dell'acqua dolce è confinata in depositi sotterranei (falde, umidità del suolo, acquitrini, permafrost, etc.) mentre l'acqua superficiale rappresenta solo lo 0,3% (105.000 km3) del volume totale di acqua dolce e si trova nei laghi e fiumi del Pianeta. 13.000 km3 di acqua sono dispersi nell'atmosfera come vapore acqueo, una parte del quale viene restituito sotto forma di precipitazioni, che alimentano le acque superficiali e sotterranee. È evidente come solo quota piccolissima (meno dell'1%) di acqua dolce sia potenzialmente utilizzabile dall'uomo per le proprie necessità vitali.

Globalmente, gli esseri umani si appropriano del 54% di tutta l'acqua dolce accessibile, di cui il 70-80% viene utilizzato per l'irrigazione. Ciononostante oltre 1 miliardo di persone non ha accesso all'acqua potabile e 2,5 miliardi (di cui un miliardo di bambini) non dispongono di adeguati servizi igienico-sanitari. Il 70% di queste persone vive in Asia.

Le implicazioni dell'assenza di questi servizi nelle realtà urbane (nelle città del mondo, un residente su quattro - 194 milioni in totale - vive senza accesso a servizi igienici adeguati) determina l'insorgenza, secondo l'OMS, di colera, malaria e disturbi o malattie intestinali che, oggi, è la seconda causa di mortalità infantile. Ogni 15 secondi, un bambino muore per malattie connesse alla qualità idrica: si tratta di un milione e mezzo di morti l'anno che potrebbero essere prevenuti. In generale, la mancanza di acqua potabile ogni anno causa più vittime di qualsiasi forma di violenza, incluse delle guerre.

Generale aumento dei consumi

Alla crescita della popolazione si aggiunge la crescita dei livelli di consumo. Al miliardo e più di esseri umani che storicamente possiedono livelli molto elevati di consumo (i paesi della cosiddetta area OCSE ossia Stati Uniti, Canada, Europa, Giappone, Australia e Nuova Zelanda) si sono aggiunti oltre un miliardo di persone dei paesi di nuova industrializzazione (dalla Cina all'India, dalla Malesia, all'Indonesia, dal Brasile all'Argentina, dall'Ucraina al Sud Africa, etc.) con ormai livelli di consumo paragonabili a quelli dei paesi dell'area OCSE.

Nel 2009, la FAO stimava che per il 2050, la popolazione e i redditi in crescita costante avrebbero richiesto un aumento del 70% della produzione mondiale alimentare. Il che significa un miliardo di tonnellate di cereali e 200 milioni di tonnellate di prodotti d'allevamento da produrre in più ogni anno. Nel 2011, la stessa FAO, volendo superare il ragionamento della vecchia visione di semplice relazioni causa-effetto relativa al "siccome si incrementa la domanda di beni di consumo, perché vi è incremento di popolazione e di consumi, ergo bisogna incrementare l'offerta", ha commissionato uno studio sulla perdita di cibo lungo le filiere alimentari mondiali e sul cibo letteralmente "buttato via" da noi abitanti dei paesi ricchi. I dati mostrano una situazione allarmante e al contempo terribile. Ogni anno nel mondo si perde un terzo del cibo prodotto.

Lo spreco alimentare è stato per troppo tempo sottostimato, poco indagato e documentato. Solo negli ultimi anni, complici la persistente crisi economica globale e il crescente allarme per il cambiamento climatico, si è acuita l'attenzione per questo problema. Il perverso meccanismo della crescita economica materiale e quantitativa è giunto al capolinea. Occorre, quindi, ripensare completamente ai legami tra l'utilizzo delle risorse e la prosperità umana ed economica, avviando un grande investimento nell'innovazione tecnologica, finanziaria e sociale per ridurre e congelare i livelli di consumo pro capite nei paesi industrializzati e mirare a percorsi sostenibili nei paesi in via di sviluppo.

Acqua: le responsabilità dell'industria

Le industrie sia che producano metalli, legno, carta, prodotti chimici, gasolio, oli o altri prodotti utilizzano l'acqua in qualche parte del proprio processo produttivo.

Industria dipende fortemente dalla risorsa idrica, al pari dell'agricoltura. La dipendenza industriale dall'acqua ne rende indispensabile la corretta gestione.

L'industria utilizza in media il 22% delle risorse idriche della Terra, ma la percentuale è molto più elevata nei paesi "avanzati" (in media il 59% contro l'8% dei paesi a basso reddito ).

Non solo consumi diretti, l'industria è responsabile ogni anno dell'accumulo di 3-500 tonnellate tra metalli pesanti, solventi, fanghi tossici e di altri rifiuti. Il contributo più significativo al carico di inquinanti proviene dalle industrie che utilizzano materie prime organiche e tra queste primeggia il settore alimentare come quello maggiormente inquinante. Il settore agro-alimentare dei paesi ad alto redito è responsabile del 40% dell'inquinamento organico in ecosistemi di acqua dolce, mentre per i paesi a basso reddito il contributo sale al 54%. In questi paesi, il 70% dei rifiuti industriali viene scaricato non trattato, inquinando anche l'approvvigionamento di acqua potabile. Utilizzare una minor quantità d'acqua riuscendo al tempo stesso a produrre più cibo o prodotti sarà cruciale per affrontare i problemi legati alla scarsità delle risorse idriche.

Tale scarsità potrebbe inoltre essere aggravata da alterazioni negli schemi delle precipitazioni causate dai cambiamenti climatici in atto. Il riscaldamento globale causa della fusione dei ghiacciai che alimentano i maggiori fiumi asiatici nella stagione secca, più precisamente nel periodo in cui è più forte la necessità di acqua per irrigare i raccolti dai quali dipendono centinaia di milioni di persone. In questo esempio, il cambiamento climatico potrebbe accentuare i problemi relativi alla

scarsità cronica di acqua e spingere oltre il punto di rottura il servizio eco sistemico che garantisce un approvvigionamento regolare di acqua pulita.

Agricoltura e risorse idriche

 

Il fabbisogno idrico giornaliero pro capite è di 2-4 litri, ma sono necessari da 2.000 a 5.000 litri di acqua per produrre il cibo che una persona mangia ogni giorno.

L'agricoltura assorbe la maggior parte delle risorse idriche del Pianeta: le pratiche irrigue contribuiscono attualmente al 40% della produzione alimentare mondiale riuscendo a determinare un aumento della produttività delle colture dal 100 al 400%.

Negli ultimi 30 anni la produzione alimentare è aumentata di oltre il 100% e l'agricoltura ha risposto con il raddoppiamento del volume produttivo e la triplicazione del commercio agricolo mondiale. Nello stesso periodo, il consumo medio di cibo pro capite è aumentato di quasi un quinto, passando dalle 2.360 kcal per persona al giorno della metà degli anni '60 alle 2.800 kcal per persona del giorno oggi; nel gruppo dei paesi a basso reddito il consumo di cibo è aumentato del 30% con un netto miglioramento delle situazioni nutrizionale.

L'agricoltura mentre da un lato risponde alle necessità di sfamare il mondo produce anche una vasta gamma di colture non alimentari (tra cui cotone, gomma, caffè e tè, oli industriali e biocombustibili), confermando il proprio ruolo di maggior consumatore di acqua sul globo. L'irrigazione utilizza ormai un quantitativo prossimo al 70% di tutta l'acqua dolce disponibile per l'uso umano, arrivando a oltre il 95% nei paesi in via di sviluppo. Questa percentuale, tuttavia, si riferisce esclusivamente al prelievo di acqua superficiale e sotterranea (laghi, fiumi e falde) e non tiene conto dell'acqua immagazzinata nel terreno dalle piogge, utilizzata comunque nella produzione agricola.

In Europa, l'attività agricola consuma mediamente il 46% della risorsa idrica, contro il 19% della produzione elettrica, il 18% delle forniture idriche e il 17% dell'industria. In Italia circa il 60% dell'acqua dolce è utilizzato per l'agricoltura, il 25% per l'industria e il 25% per gli usi domestici.

L'aumento della popolazione mondiale determinerà inequivocabilmente un aumento del fabbisogno idrico, non solo per il consumo umano (acqua potabile o prelievi irrigui per la produzione alimentare), ma anche per tutti quegli usi correlati al cambiamento delle abitudini connesse con la salute e l'allungamento della vita media.

Il settore agricolo è chiamato ad affrontare una sfida complessa: produrre più cibo di migliore qualità utilizzando meno acqua per unità di prodotto. Per mettere in atto un uso sostenibile della risorsa idrica è necessario tenere conto dell'intero ciclo dell'acqua, assicurando una gestione del territorio che favorisca la conservazione sia quantitativa sia qualitativa dell'acqua dolce disponibile a livello di bacini idrografici.

L'agricoltura contribuisce anche a conservare molti ecosistemi specifici che altrimenti scomparirebbero con l'abbandono di determinate attività agricole.

L'importanza del mantenimento delle pratiche agricole tradizionali per la conservazione della biodiversità sia domestica (specie, varietà e razze animali e vegetali) sia selvatica è testimoniata dal 92% del territorio europeo occupato da aree rurali e da circa il 50% delle specie animali minacciate o in declino in varia misura dipendente dagli ambienti agricoli.

In Europa due fattori di cambiamento nelle pratiche agricole hanno sconvolto l'equilibrio tra agricoltura e biodiversità: l'intensificazione della produzione e la sottoutilizzazione del suolo. I profondi cambiamenti che almeno negli ultimi 50 anni hanno interessato l'uso del suolo e le strutture delle aziende agricole sono stati la causa diretta o indiretta di una notevole riduzione o perdita della biodiversità.

Numerosi studi scientifici dimostrano chiaramente il nesso tra alcune pratiche agricole e la ricchezza di biodiversità riscontrabile nei sistemi agricoli tradizionali europei.

Un esempio è rappresentato dall'habitat dei prati-pascolo con le "magnifiche fioriture di orchidee su substrato calcareo" diffuso nel nostro Appennino ed identificato dall'Unione Europea tra gli habitat meritevoli di conservazione (Direttiva UE Habitat). Si tratta di un habitat naturale la cui formazione e mantenimento dipendono direttamente dalla presenza di un'adeguata pressione del pascolo. La permanenza di un allevamento estensivo impedisce infatti a questo ambiente di evolvere in pascoli cespugliati e bosco, con la conseguente scomparsa dell'insieme di specie vegetali ed animali legate a questo habitat.

La biodiversità agricola, un aspetto della biodiversità in generale, è essenziale per soddisfare i bisogni fondamentali della popolazione umana in termini di sicurezza alimentare. Sono circa 7.000 le specie vegetali utili per l'alimentazione, ma solo 150 vengono utilizzate dall'agricoltura moderna. Le conoscenze locali e le tradizioni culturali formano parte integrante della gestione della biodiversità agricola. L'uso della biodiversità in ambito agricolo consente dunque di creare nuove varietà vegetali e animali per ottenere obiettivi economici, sanitari, tecnici ed ecologi.

Le aree agricole ad elevato valore naturale

La definizione "ad Elevato Valore Naturale" (HNV) viene utilizzata per descrivere vasti tipi di coltivazioni che, grazie alle loro caratteristiche, sono particolarmente ricchi in biodiversità. Si tratta generalmente di sistemi di coltivazione non intensivi.

L'agricoltura in Europa varia dai sistemi di produzione più intensivi, praticati generalmente nelle terre più fertili, ad utilizzi della terra più tradizionali a bassissima intensità, caratteristici solitamente dei suoli più poveri. A partire dagli anni '90 si è assistito ad un crescente riconoscimento del fatto che la conservazione della biodiversità in Europa dipenda dal mantenimento di questi sistemi di coltivazione in vaste aree rurali. In Italia le aree agricole di elevato valore naturale interessano circa 6 milioni di ettari, il 32% della superficie agricola totale e si trovano soprattutto nelle aree naturali protette.

La PAC per la conservazione della biodiversità

La conservazione della biodiversità dovrebbe essere un obiettivo prioritario della Politica Agricola Comune dell'Unione Europea (PAC) da perseguire garantendo la sopravvivenza di sistemi agricoli in territori di elevato valore naturale, in particolare tramite misure specifiche per le zone svantaggiate nelle quali l'agricoltura rischierebbe di scomparire completamente. Le misure agro-ambientali rappresentano in tutta l'Unione Europea un elemento fondamentale ai fini della conservazione della biodiversità legata all'attività agricola. Il regolamento UE sullo Sviluppo Rurale stabilisce un maggiore sostegno alla rete Natura 2000 (LINK AL SITO WWF), mantiene le misure agro-ambientali e le indennità per le zone caratterizzate da svantaggi naturali e propone una serie di provvedimenti a sostegno della gestione sostenibile delle foreste, alcuni dei quali concepiti appositamente per incrementarne il valore ecologico.

Quante specie mangiamo?

La coevoluzione tra uomo e ambiente è iniziata nel Neolitico con la domesticazione di specie progenitrici selvatiche e continua ancora oggi.

Si stima che, durante la storia dell'umanità, siano state utilizzate circa 10.000 specie per l'alimentazione umana e l'agricoltura. 40 specie animali (e 6.500 razze individuabili) su 50.000 conosciute sono state addomesticate. Di queste solo 14 specie contribuiscono per oltre il 90% alla produzione di alimenti di origine animale (Domestic animal genetic diversity, 2009)

Attualmente, poco più di 120 specie di piante coltivate forniscono il 90% degli alimenti, e soltanto 12 specie vegetali e 5 specie animali forniscono circa il 75% degli alimenti.

Da sole 4 specie vegetali (patate, riso, mais e grano) e 3 specie animali (bovini, suini e polli) ne forniscono oltre la metà.

La FAO stima che tra il 1900 ed il 2000 sia andato perso il 75% della diversità delle colture che coltiviamo e che ci alimentano, e questa perdita minaccia anche i loro parenti "selvatici", con grave rischio per la sicurezza alimentare.. Si prevede che entro il 2050 andranno persi, a causa del cambiamento climatico, tra il 16 e il 22% dei parenti selvatici di colture importanti di fagioli, arachidi e patate.

Soltanto negli Stati Uniti sono già sparite oltre il 90% di varietà di alberi da frutta e ortaggi che venivano coltivati all'inizio del XX secolo. Delle oltre 3.000 varietà di riso presenti in India all'inizio del secolo scorso, oggi il 75% delle risaie del Paese è costituito da sole 20 varietà.

In generale, il 20% delle razze zootecniche sono a rischio di estinzione. Solo in italia delle 30 razze di bovini, 8 sono rappresentate da popolazioni in via di estinzione che contano meno di 350 capi ciascuna, mentre il grosso dello stock nazionale di bovini è costituito da sole 3 razze cosmopolite: la frisona, la bruna e l'italiana.

Questo fatto comporta forti rischi di erosione genetica che compromette la capacità delle generazioni future di affrontare gli imprevedibili cambiamenti ambientali e climatici.

L'urgenza del rischio di erosione genetica viene riconosciuta dal Regolamento 817/2004, con cui la Commissione Europea esplicita come di fatto le razze locali, unitamente alle specie vegetali a rischio, rivestano un ruolo fondamentale nella salvaguardia dell'ambiente.

Un proverbio africano sostiene come "le risorse naturali non ci appartengono, le abbiamo in prestito dai nostri figli"

Numeri in agricoltura

Delle oltre 350.000 specie di piante conosciute, oltre 10.000 sono commestibili; di queste circa 150-200 specie sono state coltivate dall'uomo nel corso dei secoli attraverso incroci selettivi, ottenendo migliaia di varietà. Di queste 100 sono le specie fondamentali per la sicurezza alimentare della maggior parte dei paesi del mondo. Oggi, la popolazione mondiale trae il 90% delle calorie che assume da 20 specie agricole; di queste solo 3 - riso, mais and grano - forniscono il 60% delle calorie e proteine vegetali.

Alcune specie sono state utilizzate più di altre; esistono infatti 120.000 varietà di riso (secondo l'International Rice Research Institute), 18.000 specie di legumi e circa 5.000 varietà di patate.

Con l'avvento delle monocolture, le pratiche agricole tradizionali sono state in gran parte abbandonate. Inoltre spesso le piante da monocoltura sono varietà ibride di una specie tradizionali:

Numeri nell'allevamento

La perdita di biodiversità non riguarda solo l'agricoltura. Contemporaneamente alla nascita dell'agricoltura, l'uomo ha iniziato ad addomesticare anche gli animali a partire da specie selvatiche sfruttandone la forza, la carne, il latte, le pelli e le ossa. L'allevamento del bestiame rappresenta una tappa fondamentale nella storia dell'umanità. Analogamente all'agricoltura tradizionale, l'allevamento ha da sempre favorito la sopravvivenza di numerose razze locali. La tendenza a forme di allevamento intensivo, al contrario, spinge alla selezione di poche specie e poche razze ad alto rendimento a scapito delle tante selezionate nei secoli. Il 30% delle razze domestiche di animali sono a rischio di estinzione; 6 razze vengono perse ogni mese

Ad oggi gli animali coprono circa il 30% del fabbisogno umano per l'alimentazione e l'agricoltura e il 12% della popolazione mondiale vive quasi esclusivamente dei prodotti provenienti dai ruminanti.

Allevamento estensivo e biodiversità

Come l'agricoltura anche l'allevamento può avvenire secondo pratiche e modelli intensivi o estensivo (LINK a impatto su cambiamenti climatici). L'allevamento intensivo avviene esclusivamente con animali mantenuti in stalle e alimentati con mangimi elaborati (farine di origine vegetale, di mais o soia, ma spesso anche di origine animale, di carne e di pesce) o fieno (erba medica). L'allevamento estensivo prevede il mantenimento degli animali al pascolo brado dalla primavera all'autunno e la permanenza in stalla solo dal tardo autunno all'inizio della primavera. L'alimentazione di questi animali avviene prevalentemente da foraggio fresco.

Per le sue caratteristiche l'allevamento estensivo ha un rendimento basso (molto minore dell'allevamento intensivo) e richiede dunque una forte riduzione del consumo di carne rispetto ai livelli attuali. Infatti l'elevato consumo di carne (circa 90 kg l'anno per l'italiano medio) non sarebbero mai sostenibili dal solo allevamento estensivo. D'altra parte se una dieta vegetrariana è complessivamente più sostenibile dal punto di vista ambientale, la completa eliminazione della carne proveniente dall'allevamento estensivo comporterebbe la perdita di specie ed habitat associate a questa pratica tradizionale (link Agricoltura e conservazione)

La conservazione di molte specie ed habitat naturali dipende infatti dal mantenimento sul territorio di forme di allevamento estensivo con il pascolo allo stato brado. È necessario però si garantisca un equilibrio: l'eccessiva pressione del pascolo causa l'erosione del suolo e la perdita di biodiversità, una bassa pressione comporta l'evoluzione della vegetazione con la scomparsa del pascolo e il ritorno del bosco. La superficie forestale italiana, partire dal dopoguerra, ha avuto una graduale e costante espansione, passando da circa 5 milioni e 600 mila ettari del 1948 agli attuali oltre 10 milioni di ettari.

Le colture abbandonate

L'amaranto

L'amaranto (Amaranthus) appartiene alla famiglia delle Amarantacee, che comprende più di 500 specie. È originario del Centro America, dove costituiva, insieme a mais e fagioli, un elemento basilare dell'alimentazione delle popolazioni amerinde (Maya, Aztechi, Incas e gruppi di popoli cacciatori-raccoglitori della zona) già 3000 anni fa o anche più.

Con l'arrivo dei conquistatori spagnoli, si è assistito al declino dell'amaranto e la straordinaria diffusione del mais. La ragione di ciò va probabilmente ricercata nella dimensione estremamente piccola dei semi di amaranto e/o all'associazione di questa pianta ai riti religiosi indigeni che portò i missionari cristiania proibirne la coltivazione.

Come il grano saraceno e la quinoa, non fa parte delle graminacee e non è propriamente definibile "cereale" bensì uno "pseudo-cereale" sebbene dal punto di vista alimentare sia annesso a questi per le marcate affinità. Dal punti di vista nutrizionale è molto importante per l'elevato valore energetico, la qualità del contenuto proteico (dall'8,8 fino al 19,5%), la ricchezza in ferro, calcio, lisina (un aminoacido essenziale) e vitamine (soprattutto A e C). 100 grammi di amaranto cotti senza aggiunta di olio possono fornire il 45% della dose giornaliera raccomandata di vitamina A. Rispetto agli spinaci, l'amaranto contiene tre volte più vitamina C, calcio e niacina. Rispetto alla lattuga, contiene 18 volte più vitamina A, 13 volte più vitamina C, 20 volte più calcio e 7 volte più ferro.. Non solo ma tra le sue caratteristiche più peculiari ha la totale assenza di glutine.

L'amaranto ha sfamato per secoli intere popolazioni senza provocare mancanze nutrizionali come vitamine o oligoelementi basilari.

Oggi nel mondo, inclusa l'Italia, è considerata una pianta ornamentale, per le sue bellissime infiorescenze rosso cupo, e talvolta invasiva delle colture cerealicole, orticole e frutticole. In realtà questo pseudo cereale, relegato ad alimento per appassionati di cibi etnici, può diventare se riscoperto uno straordinario serbatoio di nutrienti essenziali per il sostentamento futuro oltre a rappresentare un'ottima alternativa per la celiachia. Non solo l'amaranto può essere anche una preziosa fonte di nutrimento nelle aree africane con climi caldi e secchi. Questa coltura può crescere su terre marginali e quando è ben consolidata che può sopportare condizioni di siccità acuta.

Prende il nome di agrobiodiversità la diversità di specie addomesticate, vegetali e animali, e rappresenta un sottoinsieme della diversità biologica generale.

La biodiversità agricola presenta caratteristiche specifiche e diverse dalla biodiversità selvatica. La prima caratteristica è che l'agrobiodiversità agricola è una risorsa essenziale per soddisfare un bisogno primario della specie umana: l'alimentazione. Inoltre, l'agrobiodiversità è il risultato del lavoro di addomesticazione, adattamento e conservazione che generazioni di agricoltori hanno realizzato fin dagli inizi dell'agricoltura, 12.000 anni fa. Mentre la biodiversità selvatica è una risorsa naturale, la biodiversità agricola è il frutto del lavoro di selezione della specie umana.

Nonostante la sua importanza vitale per la sopravvivenza umana, secondo la Fao, il tasso di biodiversità "domestica" continua a diminuire a livello mondiale per effetto della sostituzione delle razze e varietà locali con quelle cosiddette cosmopolite, standardizzate per elevate produzioni. La perdita di biodiversità avrà un notevole impatto sulla capacità dell'umanità di nutrire i 9 miliardi di persone che saranno presenti sul pianeta nel 2050, con i più poveri ad essere i più colpiti.

A livello locale, i vari sistemi di produzione alimentare sono a rischio - incluse le conoscenze, le tipicità e le tradizioni tramandate dagli agricoltori attraverso generazioni - sostituiti da un numero ridotto di varietà e razze commerciali moderne ed estremamente uniformi. Questo determina un forte declino dell'agrobiodiversità per cui molte varietà di piante coltivate e di razze animali allevate sono silenziosamente scomparse. Questa sparizione è conosciuta come "estinzione" ed è irreversibile.

Con l'estinzione di specie di perde la diversità di "materiali" genetici in grado di fornire agli agricoltori e agli allevatori la "materia prima" per selezionare nuove colture e razze produttive, resistenti a determinati tipi di stress e adatte ai cambiamenti climatici ed ambientali in atto.

La perdita di diversità genetica limita in maniera definitiva la capacità delle generazioni presenti e future di affrontare i possibili ed imprevedibili cambiamenti dell'ambiente e del clima. Infatti le specie vegetali e animali autoctone di un luogo sono caratterizzate da un elevato adattamento alle condizioni del clima e le caratteristiche del suolo locali e sono depositarie di un specificità genetica che le rende adatte al proprio territorio e alle sue specifiche caratteristiche (per esempio, alla carenza idrica).

L'utilizzo del numero più elevato possibile di razze e varietà è senza dubbio la migliore strategia per conservare il "capitale" di biodiversità, utile in risposta ai cambiamenti ambientali, alle malattie ed all'evoluzione della domanda dei consumatori. La diversità genetica è una vera e propria "assicurazione" contro i problemi futuri e le minacce come le carestie, la siccità e le epidemie.

Cause della perdita di agrobiodiversità

Durante gli ultimi 100 anni, si è verificata un'enorme perdita della diversità genetica nell'ambito delle "specie alimentari principali". Centinaia di migliaia di varietà tradizionali eterogenee di piante, coltivate e sviluppate dai contadini attraverso tante generazioni sono state sostituite con un numero ridotto di varietà commerciali moderne, estremamente uniformi.

Le cause della perdita di agro biodiversità vanno ricercate nell'orientamento di agricoltori e allevatori verso scelte tese ad aumentare produzioni attraverso l'uso di un numero limitato di varietà e di razze, l'orientamento verso la monocoltura o l'allevamento di poche specie, la forte competizione dei cultivar "universali" e scarso interesse del mercato verso i prodotti di varietà o razze 'antiche'

Gli effetti di questa perdita si rinvengono nella maggiore vulnerabilità alle malattie e quindi a catena la maggiore necessità di interventi con trattamenti chimici (fitofarmaci, concimi, ormoni, ecc.) che determina maggiore inquinamento

Gli studi condotti dalla FAO indicano inoltre come la maggior parte dei paesi dipendono dai raccolti che provengono dall'esterno per più del 90% del proprio fabbisogno alimentare. nel caso specifico dell'Italia, la dipendenza dalla diversità genetica che proviene da altri Paesi per le colture più importanti è tra il 71 e l'81%.


Il modello agroalimentare industriale moderno, che si è affermato negli ultimi 50 anni, ha prodotto un'aumentata produttività nel breve termine, ma anche un impatto ambientale i cui effetti saranno devastanti per moltissimo tempo: inquinamento, erosione del suolo, danni al paesaggio, riduzione delle risorse energetiche, perdita della diversità, sia biologica sia culturale.

Il nuovo modello ha determinato che la produzione agricola abbia assunto le caratteristiche dell'industria, diventando industria agroalimentare. Le caratteristiche distintive di questo sistema sono: il crescente utilizzo di derivati del petrolio (fertilizzanti e pesticidi, carburante per le attrezzature agricole), la produzione limitata a certe varietà vegetali e poche razze animali, la diffusione delle monoculture, soprattutto per la produzione di mangimi.

Secondo nuovo modello dominante le risorse naturali (come l'acqua, il suolo e le foreste) sono considerate semplici materie prime consumare e trasformare su vasta scala con uno sfruttamento indiscriminato che non tiene conto della loro limitatezza.

L'agricoltura e la deforestazione

Dopo la produzione di energia, l'allevamento è la seconda causa di cambiamento climatico.

Il cambio d'uso del suolo, dominato dalla deforestazione a scopo agricolo, possiede anch'esso un ruolo importante nei cambiamenti climatici in atto pesando per il 12% sulle emissioni globali. Globalmente ogni anno, in quest'ultimo decennio, circa 13 milioni di ettari di foresta sono convertiti ad altri usi o perduti.

Non solo ma il settore zootecnico è il più grande utilizzatore di suolo del mondo. Il disboscamento delle foreste per convertire i terreni in pascoli rappresenta un serio problema ambientale in molte aree del mondo. La produzione di alimenti di origine animale infatti è nettamente sfavorevole anche in termini di superficie arabile richiesta per anno, essendo pari a circa 20 m2 per ogni kg di carne di manzo e appena 0,2 m2 per kg di patate

Attualmente gli ecosistemi forestali nel mondo coprono il 31% della superficie terrestre e si tratta di oltre 4 miliardi di ettari, che corrispondono ad una media di 0,6 ettari pro capite. Le cinque nazioni più ricche di foreste (Federazione Russa, Brasile, Canada, Stati Uniti e Cina) coprono per più della metà il totale delle aree forestali presenti sul nostro pianeta.

Tante altre risorse naturali - e relativa filiera produttiva - collegate al settore alimentare hanno un forte impatto sull'ambiente, in particolare sulle foreste. Per esempio, le importazioni italiane di caffè (circa 470mila tonnellate nel solo 2008) gravano sull'ambiente con 1.400 milioni di metri cubi acqua, circa 4 milioni di tonnellate di CO2eq, 1,6 milioni di ettari l'anno - ovvero più della superficie dell'intera Calabria -  700mila tonnellate di materiali biotici e 6,5 milioni di tonnellate di materiali abiotici. In generale, per produrre un chilo di caffè sono necessari 12-14 mq di terra arabile, mentre sono circa 10 milioni gli ettari di terra destinati globalmente alla coltivazione del caffè. Tra i principali danni ambientali c'è ovviamente il taglio delle foreste pluviali.

Altro esempio importante è quello dell'olio di palma importato in Italia (nel 2010 sono arrivate circa 1.100.000 tonnellate di olio grezzo) che richiede un consumo di 410 milioni di metri cubi di acqua, 2 milioni di tonnellate di CO2eq, 210mila ettari di terreno l'anno - un'area grande quanto la provincia d'Ancona - circa 3 milioni di tonnellate di materiali biotici e circa 1,2 milioni tonnellate di materiali abiotici. La gran parte dell'olio di palma giunge nel nostro Paese da Indonesia (71%), Malesia (13%), Thailandia (7%), Papua Nuova Guinea (6%) e viene utilizzato per i biocarburanti (185mila tonnellate), per i prodotti chimici organici (115 mila tonnellate), per le margarine (50mila tonnellate) e circa 200mila tonnellate complessive per prodotti il cui contenuto non è facilmente determinabile (cibi contenenti grassi vegetali, saponi e cosmetici). Una 'zavorra ecologica' in aumento se si considera che la produzione mondiale di olio di palma negli ultimi 30 anni è passata da 4,9 a 49 milioni di tonnellate e che rispetto al 2000 ci si aspetta una crescita della domanda del 100% nel 2020 e del 200% nel 2050, anche a causa degli investimenti dei produttori di biodiesel.

I principali danni ambientali e sociali collegati alla sua filiera produttiva sono: deforestazione, la perdita di habitat, erosione e degrado del suolo, inquinamento chimico delle acque e dispersione di pesticidi che giungono sino agli ecosistemi marini, sfruttamento e distruzione degli stili di vita delle popolazioni indigene. Le aree più colpite sono: Borneo, Sumatra, Papua Nuova Guinea, Amazzonia, Bacino del Congo.

L'agricoltura e Il degrado del suolo

Il degrado del suolo è uno dei problemi più seri che l'agricoltura moderna si trova ad affrontare.

Secondo la Fao, se da un lato negli ultimi 50 anni si è registrato un notevole aumento della produzione mondiale, dall'latro in troppe occasioni tali miglioramenti sono stati accompagnati da pratiche di gestione delle risorse che hanno degradato gli ecosistemi terrestri e idrici dai quali la produzione alimentare stessa dipende.

Ad oggi un numero elevato di ecosistemi è esposto al rischio di un progressivo deterioramento della loro capacità produttiva, a causa dell'effetto congiunto di un'eccessiva pressione demografica e di usi e pratiche agricole non sostenibili. Tra il 1961 e il 2009, la superficie mondiale coltivata è si è estesa del 12%, ma la produzione agricola è cresciuta del 150%, grazie ad un notevole aumento dei raccolti delle colture principali. ll 25% percento della superficie agricola mondiale è degradata (Fao, 2011), dove per degrado si fa riferimento non solo al semplice degrado del suolo e delle risorse idriche ma include anche altri aspetti degli ecosistemi colpiti, come ad esempio la perdita di biodiversità.

Se da un lato sono necessari da 20 a 1.000 anni per la formazione di un centimetro di suolo, l'allevamento di animali è uno dei fattori che più contribuiscono maggiormente all'erosione. Quando un pascolo è sovrasfruttato, il bestiame con gli zoccoli compatta il suolo e strappa la vegetazione che tiene assieme il terreno, diventando così causa di erosione. Nel caso dell'allevamento intensivo, invece, il suolo viene eroso perché le coltivazioni per la produzione di mangimi, necessari a mantenere quest'industria, richiedono grandi estensioni di terreno coltivabile.

La minaccia maggiore associata al degrado del suolo è perdita di biodiversità e l'esaurimento delle risorse idriche.

Un esempio estremo di degrado del suolo è il fenomeno noto come desertificazione. L'agricoltura può contribuire alla desertificazione sia direttamente, tramite pratiche agricole dannose come la coltivazione intensiva, sia indirettamente, attraverso la deforestata per creare nuove terre coltivabili o nuovi pascoli per il bestiame.

Perché l'insicurezza alimentare e la sottonutrizione possano diminuire in maniera duratura, la produzione agricola dovrà affrontare un miglioramento produttivo sulle terre già attualmente a coltura, attraverso una gestione più sostenibile che riduca gli sprechi e faccia un uso efficiente delle risorse idriche e del suolo, senza comprometterne la rigenarazione.

L'agricoltura e l'Inquinamento chimico

Sono moltissime le circostanze in cui l'agricoltura fa ricorso ai prodotti chimici di sintesi: per la difesa delle piante e delle produzioni dai parassiti, per il controllo delle erbe infestanti, per la fertilizzazione del terreno. Sono innegabili i vantaggi in termini di aumento delle produzioni, di contro il loro uso e "abuso" si trasforma in un grave danno sul lungo periodo per l'ambiente e per la stessa salute dell'uomo.

In particolare, la categoria dei pesticidi, che comprende un gruppo ampio e diversificato di sostanze utilizzate per prevenire, allontanare o uccidere insetti, funghi, erbe indesiderate, costituisce un grosso fattore di rischio per la salute umana e l'ambiente, poiché le loro caratteristiche le rendono particolarmente pericolose. Si tratta, infatti, di sostanze persistenti, in grado si resistere alla degradazione e permanere nell'ambiente per lunghi periodi di tempo, risultando tossiche per l'uomo, la fauna e flora selvatiche. Per il loro elevato grado di liposolubilità (affinità per i tessuti grassi), si accumulano negli organismi viventi, tra cui l'uomo, i mammiferi marini e numerose altre specie selvatiche. Si assiste a fenomeni di biomagnificazione nelle specie ai vertici delle catene alimentari.

Anche i fertilizzanti soprattutto a base di azoto e fosforo hanno un impatto molto grave sull'ambiente.

Alterazione ciclo dell'azoto

Il ciclo naturale dell'azoto viene sconvolto dalla scoperta della sintesi dell'ammonica (1913) e dalla successiva industrializzazione nel 1960. Da allora la produzione di forme reattive di azoto come fertilizzante è cresciuta in maniera esponenziale. I fertilizzanti azotati, ottenuti tramite procedure industriali, sono la principale fonte di origine umana di emissioni di ossido nitroso. L'uso eccessivo di fertilizzanti azotati, determina un ingente flusso di azoto in entrata nel ciclo biogeochimico che non viene compensato dalla rimozione tramite i processi di denitrificazione. La massiccia introduzione negli ecosistemi di forme reattive dell'azoto su scale temporali molto ristrette, ha già mostrato diverse conseguenze negative sia su scala locale sia su scala globale: eutrofizzazione di laghi, fiumi e acque costiere con fioriture algali e diminuzione della concentrazione di ossigeno nell'acqua; elevata concentrazione di ossidi di azoto nell'aria; presenza di nitrati nelle acque potabili a concentrazioni pericolose per la salute umana.

Alterazione ciclo del fosforo

Il fosforo è un altro elemento essenziale per la vita ed è presente negli acidi nucleici, nelle membrane cellulari, nei sistemi di trasferimento dell'energia. Il ciclo del fosforo comincia quando i composti del fosforo vengono ceduti dalle rocce e dai minerali. Poiché il fosforo non ha forme atmosferiche, viene trasportato in forma acquosa e assorbito dagli organismi produttori, incorporato in molecole organiche e poi passato ai consumatori. L'eccesso d fosforo nell'ambiente introdotto con i fertilizzanti ha effetti drammatici sugli ecosistemi acquatici: l'eccesso di fosfati può stimolare crescite esplosive di popolazioni di alghe e batteri fotosintetici, sconvolgendo così l'equilibrio dell'ecosistema.

Breve storia dei pesticidi: dal DDT alla sporca dozzina

La storia dei pesticidi è sicuramente segnata da un coleottero (la Doriphora decemlineata, flagello degli agricoltori) contro il quale l'industria non chiedeva altro poter aprire un nuovo mercato, quello degli insetticidi. Nel 1939 Il chimico svizzero Paul Hermann Müller sintetizza il DDT. Molto probabilmente il DDT aveva fatto la sua prima apparizione nei laboratori del Prof. von Bayer dell'Università di Strasburgo per opera di un dottorando austriaco, Othmar Zeidler, che lo sintetizzò a partire da clorobenzene e cloralio (CCl3-CHO). Zeidler dedicò al nuovo composto poche righe in una pubblicazione del 1874, senza sospettare che la sua reazione chimica sarebbe diventata il processo base per la produzione industriale di DDT. Paul Müller svelerà le potenti proprietà insetticide del DDT e questa scoperta gli valse nel 1948 il Premio Nobel in Fisiologia e Medicina. Il nuovo insetticida si rivelò così efficace da venire subito brevettato (1940) e commercializzato (1942). Dalla Svizzera ha girato il mondo, sia intenzionalmente laddove se ne richiedeva l'uso, sia accidentalmente per la sua inerzia chimica, spingendosi fino al Polo Nord, sospinto dai venti e dalle correnti marine. Intenzionalmente la prima volta che il DDT oltrepassò l'oceano è nel 1942, per raggiungere gli Stati Uniti, che erano alla ricerca di un'arma per difendere le truppe dalle malattie tropicali trasmesse dagli insetti. Dopo la guerra, il DDT conosce successi spettacolari nel controllo di malattie che vengono trasmesse dagli insetti, come il tifo, la malaria e la febbre gialla. Negli anni '40 e '50, è il pesticida clorurato più usato, pratica protratta estesamente anche in Italia con la prima campagna intrapresa a Napoli per scongiurare un'epidemia di tifo. Oltre 3 milioni di individui, fra civili e militari, vennero trattati con l'insetticida. Il DDT acquistò la sua reputazione di "insetticida miracoloso". Dalle campagne il DDT si sposta all'interno delle abitazioni per proteggerle dagli insetti comuni, come le mosche. Presto sorgono i primi problemi: (1) certi insetti sviluppano resistenza al DDT; 2) l'insetticida persisteva nell'ambiente (nel 1950, la Food and Drug Administration dichiara che "con ogni probabilità i rischi potenziali del DDT erano stati sottovalutati"). Nel 1962, un'attivista ambientalista americana, Rachel Carson, pubblicò il libro Silent Spring (Primavera silenziosa) denunciando l'uso indiscriminato dei pesticidi e il problema del trasferimento di composti bioaccumulabili come il DDT e gli altri composti organoclorurati dall'ambiente agli organismi. La Carson denuncia il DDT come composto cancerogeno e nocivo nella riproduzione degli uccelli dei quali assottigliava lo spessore del guscio delle uova. "Su zone sempre più vaste del suolo statunitense, la primavera non è ormai più preannunziata dagli uccelli, e le ore del primo mattino, risonanti una volta dal loro bellissimo canto, appaiono stranamente silenziose" scriveva la Carson. Il libro causò clamore nell'opinione pubblica; il risultato fu che nel 1972 il DDT venne vietato per l'uso agricolo negli USA e si assistette alla nascita del movimento ambientalista. Nel 1972, il DDT viene proibito negli Stati Uniti e solo nel 1978 anche in Italia. Ma molti effetti cronici, tra i quali l'interferenza con i sistemi di regolazione ormonale, sono venuti alla luce in anni più recenti. Il libro "Our Stolen Future" del 1996 di Theo Colborn, Dianne Dumanoski, John Peterson Myers racconta come le sostanze chimiche prodotte dall'uomo minaccino la nostra fertilità, l'intelligenza e la sopravvivenza . Nel 1992, nel corso dell'Earth Summit a Rio, con l'adozione dell'Agenda 21, è stato dato l'avvio a una serie di accordi intergovernativi, culminati poi nella Convenzione di Stoccolma (22 maggio 2001), volti a intraprendere tutte le misure necessarie per eliminare o ridurre a livelli non pericolosi le emissioni dei composti chimici nell'ambiente. Il trattato globale mette al bando l'uso del DDT e di altre 11 sostanze persistenti nell'ambiente conosciute come POP (Persisten Organic Pollutants). Il Trattato internazionale individua una prima lista di POP comprendente 12 sostanze o classi di sostanze tossiche tra le 9 pesticidi (aldrin, lordano, DDT, dieldrin, endrin, eptaclorobenzene, esaclorobenzene, mirex e toxafene), sostanze chimiche industriali e 2 gruppi di prodotti e sottoprodotti della combustione emessi non intenzionalmente (PCB, diossine e furani) di cui viene prevista la loro graduale eliminazione. Dopo anni di strenui negoziati, questo importante accordo internazionale nella lotta contro le sostanze più dannose è entrato in vigore il 17 maggio del 2004, grazie alla ratifica del 50esimo paese firmatario della Convenzione (Francia). Sempre più ricerche scientifiche dimostrano come i POP appartengano alla categoria dei distruttori endocrini, ovvero sostanze in grado di mimare gli effetti degli ormoni endogeni o di interferire con il loro meccanismo d'azione.

Cos'è l'agricoltura biologica

L'agricoltura biologica è un metodo di produzione definito e disciplinato a livello comunitario dal Regolamento CE 834/07, dal Regolamento di applicazione CE 889/08 e, a livello nazionale, dal D.M. 220/95.

L'agricoltura biologica non prevede l'utilizzo di sostanze chimiche di sintesi (concimi, diserbanti, anticrittogamici, insetticidi, pesticidi in genere), nè Organismi Geneticamente Modificati (OGM). La difesa delle colture avviene innanzitutto in via preventiva, selezionando specie resistenti alle malattie e intervenendo con tecniche di coltivazione appropriate tra cui:

  • la rotazione delle colture, che evita di coltivare per più stagioni consecutive la medesima pianta sullo stesso terreno;
  • la creazione di siepi che ricreano il paesaggio, fornendo ospitalità ai predatori naturali dei parassiti e costituendo una barriera fisica a possibili inquinamenti esterni;
  • la consociazione, ossia la coltivazione contemporaneamente di piante diverse, l'una sgradita ai parassiti dell'altra.

In agricoltura biologica si usano fertilizzanti naturali come il letame ed altre sostanze organiche compostate e sovesci, ossia si incorporano nel terreno piante appositamente seminate, come trifoglio o senape.

In caso di necessità, per la difesa delle colture si interviene con sostanze naturali facendo ricorso esclusivamente alle sostanze autorizzate e dettagliate dal Regolamento europeo.