L’emergere di una logica agro-industriale in risposta alla necessità di produrre grandi quantità di alimenti di origine animale, proteici e a basso costo, ha visto il prevalere dell’allevamento intensivo su quello estensivo. Quest’ultimo infatti, praticato lasciando che gli animali siano liberi al pascolo e si nutrano con le risorse del territorio, non sarebbe in grado di assecondare una logica di tipo commerciale tesa alla produzione su larga scala.
L’allevamento intensivo al contrario è condotto, nella maggior parte dei casi, con l’obiettivo di rafforzare la produzione riducendone i costi. Questo modello industriale di allevamento animale è però causa dei più gravi problemi ambientali: cambiamenti climatici, inquinamento e consumo di acqua, perdita di biodiversità del pianeta, deforestazione e consumo di risorse fossili. La gran parte della carne che consumiamo proviene proprio da allevamenti industriali intensivi, con enormi impatti ambientali associati: per ottenere un chilo di carne di manzo attraverso l’allevamento intensivo sono necessari circa 15 chili di cereali e soia e 15.000 litri d’acqua. Inoltre, se nell’allevamento tradizionale le deiezioni rientrano nel ciclo naturale della concimazione, negli allevamenti intensivi “senza terra”, invece, l’enorme quantità degli deiezioni prodotte non può essere “assorbita” dall’ambiente circostante (una singola vacca da latte produce un quantitativo di deiezioni pari a quelle di 20-40 persone).
Gli allevamenti intensivi rappresentano, infine, il fattore decisivo nello sviluppo di numerose patologie animali (come per esempio, l’influenza suina H1N1) che possono arrivare a rappresentare una minaccia di trasmissione di agenti patogeni zoonotici anche dagli animali all’uomo.