Nei paesi ricchi la maggior quota di sprechi - oltre il 40% dello spreco totale - si concretizza a livello della distribuzione e soprattutto dei consumi ossia quando il cibo è ancora perfettamente consumabile, mentre nei paesi in via di sviluppo le perdite e gli sprechi maggiori si concretizzano a livello agricolo e di prima trasformazione, soprattutto a causa dell'inadeguatezze strutturale della filiera.

Nei vari passaggi che vanno dalla produzione al consumo, lo spreco arriva fino al 50% del cibo: pari a circa 179 kg pro capite come media europea, senza contare gli sprechi a livello di produzione agricola o le catture di pesce rigettate in mare. Il tutto, mentre ancora 79 milioni di persone in Europa vivono al di sotto della soglia di povertà, con un 15% dei cittadini che percepisce un reddito inferiore al 60% del reddito medio del paese di residenza

Nell'industria, parte delle perdite è strettamente correlata alla natura del prodotto e risulta necessaria per esempio per trasformare la derrata da agricola ad alimentare. In altri casi invece, lo spreco è connesso all'attività gestionale dell'impresa che vanno dall'organizzazione della produzione e/o commercializzazione all'attività di marketing: si generano sprechi quando il packaging risulta difettato o danneggiato, per cambi di immagine, lancio di nuovi prodotti, prossimità della data di scadenza, residui di promozioni, etc. È stato stimato come il 90% di ciò che viene sprecato potrebbe essere ancora utilmente recuperato e utilizzato per l'alimentazione umana.

La ricetta consiste nel migliorare l'efficienza della catena agroalimentare, promuovendo modelli di produzione e consumo più efficienti e sostenibili, aiuta a ridurre il costo del cibo e ne aumentare la possibilità di accesso. Ciò determinerebbe una riduzione degli impatti connessi dallo spreco sia in termini economici, sia in termini ambientali e sociali.

Viviamo in un tempo caratterizzato da forti paradossi in ambito alimentare: la FAO nei rapporti sullo stato dell'insicurezza alimentare nel mondo, ricorda come il numero di denutriti sulla Terra si aggiri, da qualche anno, intorno al miliardo di persone e potrebbe subire nuovi incrementi connessi gli effetti provocati dagli sbalzi dei prezzi dei beni alimentari di base sui mercati internazionali. Nell'altra parte del mondo, gli obesi hanno raggiunto numeri analoghi. Ne consegue che oltre 2 miliardi di persone sono mal-nutrite, mangiano troppo o troppo poco con gravi problemi economici, ambientali, sociali e sanitari.

Lungo la filiera alimentare si spreca un quantitativo di cibo che permetterebbe di sfamare due terzi della popolazione mondiale: tutto questo cibo diventa invece rifiuto ancora una volta con enormi ripercussioni ambientali oltre che economiche.

Nel 2011 sempre la FAO ha pubblicato dati sulla perdita di cibo lungo le filiere alimentari mondiali e sul cibo letteralmente "buttato via" da noi abitanti dei paesi ricchi. I dati non possono che farci riflettere. Ogni anno nel mondo si perdono un miliardo e 300 milioni di tonnellate di cibo; ogni anno i consumatori dei paesi ricchi buttano via una quantità di cibo, stimato in 222 milioni di tonnellate comparabile all'intera produzione alimentare dell'Africa sub-sahariana, calcolata in 230 milioni di tonnellate

Ad oggi quasi la metà della produzione agricola mondiale viene utilizzata come mangime per gli animali che costituiscono la base di carne per l'alimentazione umana; inoltre il consumo medio di carne è previsto possa passare dai 37,4 kg/pro capite/annui ad oltre i 52 kg/pro capite/annui al 2050. La perdita di calorie che risulta dall'alimentare gli animali da carne con prodotti cerealicoli, invece di utilizzare direttamente i cereali come cibo per gli individui, equivale alle necessità di calorie per più di 3,5 miliardi e mezzo di esseri umani.

A livello globale, i prezzi per gli alimenti hanno subito forti spinte al rialzo e continui andamenti imprevedibili, sostenuti dalla crescita della domanda di carne in Asia, di grano in Africa, di biocombustibili in Europa e America del Nord e da altri fattori. In futuro, è poi probabile che il cambiamento climatico possa aggravare tali pressioni, rendendo più difficile la situazione per gli agricoltori e per tutto il genere umano.

Mentre una parte del Pianeta è stretta nella morsa della siccità e dell'avanzare della desertificazione (che colpisce proprio quelle regioni storicamente poco toccate dal problema), sulle pagine di tutti i quotidiani si riportano gli ingenti danni economici provocati all'agricoltura dalle alluvioni, che devastano intere coltivazioni.

Cos'è lo spreco

il termine spreco è definito come l'insieme di quei prodotti alimentari che hanno perso valore commerciale e che vengono scartati dalla catena agroalimentare, ma che potrebbero essere ancora destinati al consumo umano. Si tratta di prodotti perfettamente utilizzabili, ma non più vendibili, e che sono destinati a essere eliminati e smaltiti, in assenza di un possibile uso alternativo. I prodotti così classificati perdono le caratteristiche di "merce", ma non quelle di "alimento", quindi sono prodotti invenduti ma non invendibili.

Lo spreco alimentare è un fenomeno che per lungo tempo è stato estremamente sottostimato. Negli ultimi anni, complici la crisi economica globale, la volatilità dei prezzi dei prodotti agricoli e il crescente allarme per il cambiamento climatico, si è accresciuta l'attenzione su tale problema, nonché sugli sprechi di materie prime e risorse energetiche connessi.

Perdite di derrate alimentari si possono verificare ad ogni livello della catena agroalimentare, dalla produzione al consumo. Alcuni di queste non possono essere previste nè talvolta prevenute (come le perdite connesse all'andamento climatico o all'aggressione da parte di patogeni), altre potrebbero invece essere almeno in parte contenute grazie ad una migliore gestione aziendale o una migliore educazione del consumatore.

La Fao stima che la produzione alimentare necessaria al 2050 richiederebbe un aumento nella produzione agricola del 70%, considerati l'incremento previsto della popolazione umana (che dovrebbe raggiungere per quell'anno i 9,3 miliardi di abitanti) e i cambiamenti attesi nella dieta e nei livelli di consumo associati all'incremento dell'urbanizzazione.

Ad oggi le perdite post-raccolto ammontano al 14% circa della produzione agricola totale e che un altro 15% è perso in fase di distribuzione e sotto forma di rifiuti domestici, si potrebbero coprire i tre quinti dell'aumento totale della produzione alimentare necessario entro il 2050 semplicemente smettendo di sprecare cibo.

Oggi oltre il 50% della popolazione umana (circa 3miliardi e mezzo di persone) vive in aree urbane e nel 2050 due persone su tre (6 miliardi di individui) vivranno in aree urbane. L'urbanizzazione associata all'incremento dei consumi condurrà all'esacerbarsi della pressione sui sistemi naturali rispetto alla situazione attuale

Inoltre, se nelle economie industrializzate si assiste ad un continuo incremento il tasso di cementificazione a scapito della superficie agricola, nei paesi in via di sviluppo prosegue a tassi allarmanti la deforestazione a per creare nuovi spazi per l'agricoltura. Le conseguenti ripercussioni sulla biodiversità, sulla conservazione delle acque e del suolo, sulle società, sulla salute e sulla mitigazione dei cambiamenti climatici in atto sono solo alcuni degli effetti della deforestazione

Dopo quasi mezzo secolo dalla cosiddetta Rivoluzione Verde, che ha fortemente incrementato la produttività agricola con l'utilizzo di nuove sementi selezionate e significativi input di energia, fertilizzanti artificiali e pesticidi, una quota considerevole dell'umanità (che si aggira intorno al miliardo di individui) soffre ancora di fame cronica.

Inoltre, gran parte dei risultati della Rivoluzione Verde sono stati ottenuti con un'agricoltura intensiva che dipende pesantemente dai combustibili fossili. La questione dell'aumento della produttività dei terreni agricoli del pianeta è inficiata dalla questione se sia possibile farlo senza compromettere i suoli fertili, i cicli idrici e la diversità delle colture da cui dipendiamo

A fronte di una domanda globale in aumento, le materie prime e le risorse scarseggiano.

Il riscaldamento climatico provocherà un cambiamento della distribuzione globale delle precipitazioni, un ulteriore innalzamento del livello dei mari e una maggiore frequenza e intensità di eventi estremi (ondate di caldo, siccità, violente precipitazioni e cicloni tropicali). Gli effetti saranno diversi a seconda del luogo. Garantire cibo sufficiente alla popolazione mondiale con tali presupposti è una sfida particolare e richiede adeguamenti lungo l'intera fi

I consumi alimentari sono costantemente in trasformazione, nella popolazione italiana così come in altri paesi industrializzati. Vari sono i fattori alla base di questi cambiamenti, tra questi la modificazione dello stile di vita, la disponibilità sul mercato di una grande varietà di nuovi prodotti alimentari largamente pubblicizzati e i cambiamenti socio-demografici.

Negli ultimi decenni abbiamo assistito a 3 grandi cambiamenti nella nostra dieta che hanno avuto impatti molto negativi sul Pianeta:

1 Aumento del consumo di carne. Cosa è cambiato?

Nonostante l'ingente impatto ambientale, il consumo di carne pro capite è in continuo aumento. Secondo la Fao, dal 1967 la produzione globale di pollame è aumentata di circa il 700% così come le uova hanno fatto registrare un aumento del 350%, la carne di maiale del 290%, la carne di pecora e di capra del 200%, la carne di bovini e bufali del 180% e il latte del 180%.

La carne di maiale rappresenta il 40% della fornitura mondiale, in parte a causa degli elevati livelli di produzione e di rapida crescita in Cina, dove avviene oltre la metà della produzione mondiale. L'espansione della produzione di carne di pollo, che nel 2007 rappresentava il 26% della carne prodotta globalmente, è stata più distribuita sia tra i paesi sviluppati sia in via di sviluppo, con però ancora una volta elevati tassi di crescita in Cina. In generale ad oggi,la Cina produce quasi il 50% della carne dei paesi in via di sviluppo e 31% di quella mondiale

Ciò ha a sua volta imposto una pressione sempre più elevata sulla disponibilità d'acqua, di terra, di mangime, di fertilizzanti, di combustibile, di capacità di smaltimento dei rifiuti e sulla maggior parte delle altre risorse limitate del pianeta.

I prodotti derivati dagli animali forniscono oggi il 20% delle calorie consumate nei paesi sviluppati e circa il 13% a livello mondiale e il. Il loro contributo all'apporto di proteine è stimato pari al 48% nei paesi sviluppati e al 28% a livello mondiale. In media nei paesi in via di sviluppo di consumano 24 kg di carne pro capite l'anno mentre nei paesi sviluppati ben 65.

Tuttavia sottolinea la FAO, tali trend globali non si sono manifestati in maniera uniforme in tutto il mondo. In molte aree gli aumenti produttivi non sono avvenuti e le comunità povere e vulnerabili non hanno visto crescere il proprio consumo di proteine animali. La produzione è aumentata rapidamente in Asia orientale e sud-orientale (Cina soprattutto dove dai 14 kg l'anno pro capite del 1980 si è passati a quasi 60 kg nel 2005) e in America latina e nei Caraibi, mentre la crescita nell'Africa sub-sahariana è stata lenta. Oggi in Africa il consumo medio di proteine animali è meno di un quarto di quello europeo, dove invece il consumo di proteine animali copre circa l'80% del fabbisogno proteico totale, indicando un sovra-consumo di prodotti zootecnici in queste regioni.

La crescente domanda di prodotti animali è guidata dalla crescita economica, dall'aumento del reddito pro capite e dall'urbanizzazione. L'urbanizzazione altera infatti i modelli di consumo alimentare tanto da influenzare anche la domanda di prodotti animali. Le persone in città in genere consumano più cibo lontano da casa e grandi quantità di pre-cotto, veloce e conveniente di quanto non facciano le persone nelle zone rurali. Nel 2008 per la prima volta nella storia della specie umana la popolazione urbana ha superato quella rurale. E il trend non accenna ad arrestarsi. Entro il 2050, le Nazioni Unite prevedono che circa 7 persone su 10 abiteranno in città, il che comporterà l'ulteriore allontanamento di 600 milioni di abitanti dalle zone rurali.

Se gli americani mangiano oltre 120 chili a testa ogni anno, gli italiani arrivano a quasi 90 chili (di cui circa un quarto di carne bovina), da cui emerge sembriamo aver dimenticato la dieta mediterranea! Secondo la Fao, in Italia il consumo di carne è aumentato del di oltre il 190% dal 1961 (31 kg pro capite l'anno) al 2007 (91 kg pro capite l'anno) e la carne rappresenta oggi la fonte del 46% delle proteine totali assunte. Secondo i LARN (i livelli di assunzione giornalieri raccomandati di energia e nutrienti) per la popolazione adulta italiana la razione alimentare giornaliera per una dieta di 2000-2100 kcal prevede un apporto di circa 75 g di proteine. La ricerca pubblicata nel 2010 dall'INRAN (l'Istituto nazionale di ricerca per gli alimenti e la nutrizione) mostra come il consumo di carni rosse in Italia sia di circa 700 g a settimana, espresso come peso crudo, contro i circa 400-450 g raccomandati per la prevenzione di alcuni tipo di tumori. Secondo l'Inran, nel gruppo carne, in vetta alla classifica, c'è la carne di bovino (43 g al giorno), seguita da pollame (21 g al giorno) e suino (19 g, esclusi gli affettati).

Emerge quindi come non solo dal punto di vista ambientale sia auspicabile ridurre gli attuali consumi di carne (nei paesi ricchi se ne mangia una media di 78 kg anno) ma anche dal punto di vista sanitario, perché può ridurre il rischio di alcuni tipi di patologie.

Più carne mangiamo più grano, soia e altri cereali dovremo produrre. Quindi nel momento la Fao stima che il consumo di carne crescerà di circa il 73% entro il 2050, mentre il consumo di prodotti caseari salirà del 58% rispetto ai livelli odierni, quello che dobbiamo tenere a mente è che ciò richiederà ulteriore suolo, acqua, energia e pesticidi e fertilizzanti.

Poiché viviamo stiamo assistendo ad un'allarmante perdita di servizi ecosistemici, fra cui le risorse idriche, la crescente minaccia agli ecosistemi causata dai cambiamenti climatici e dall'inquinamento da nutrienti è impossibile immaginare di poter soddisfare la crescente domanda prevista in futuro allevando il doppio del pollame, il 50% in più di bovini e il 40% in più di suini e continuando a sfruttare lo stesso di oggi livello di risorse naturali.

  • I necessari aumenti produttivi dovranno scaturire da:
  • una riduzione dei consumi nei paesi sviluppati,
  • un drastico abbattimento degli sprechi lungo tutta la filiera alimentare,
  • una maggiore efficienza dei sistemi zootecnici.

2. Aumento del cibo industriale. Cosa è cambiato?

Una dieta ricca di alimenti di origine industriale presenta un'elevata quantità di cibi che hanno subito trasformazioni industriali (raffinazione, estrazione, precottura, conservazione, surgelazione, ecc.). Tutti questi procedimenti determinano un aumento dei costi energetici che si aggiungono alle già elevate richieste energetiche complessive associate alla meccanizzazione dell'agricoltura e all'uso massiccio di prodotti chimici.

Molto spesso non ci soffermiamo a considerare il rapporto fra l'energia consumata per la produzione e la preparazione di un alimento e l'energia che tale alimento ci fornirà. Se nel 1910 questo rapporto era di circa uno a uno (cioè l'energia che ci dava ogni alimento era pari all'energia spesa per produrlo), oggi il più delle volte si arriva a superare il rapporto di 100 a uno, che vuol dire che per produrre un alimento viene utilizzata 100 volte l'energia che quell'alimento fornisce nel momento in cui viene consumato. Si assiste quindi ad un paradosso: l'energia immessa lungo la catena alimentare per produrre e rendere disponibile il cibo (dal campo alla tavola) supera l'energia contenuta nel cibo stesso!

Nel conteggio dell'energia servita a portare un alimento sulla nostra tavola non va sottovalutato l'impatto della produzione e smaltimento degli imballaggi. Secondo i dati dell'Ue, la produzione di imballaggi (che risponde anche a esigenze di marketing, oltre che di igiene e trasporto) è in costante aumento soprattutto in Italia. Dei 532 kg pro capite di rifiuti annui è evidente come ci siano troppi imballaggi (oltre 200 kg in Italia), prodotti usa e getta, e oggetti che hanno avuto comunque un ciclo di vita troppo breve e che non sono più né riparabili né riutilizzabili. La plastica in particolare, che dura secoli, non è priva di effetti tossici né in fase produttiva né di smaltimento, tanto più quando abbandonata nell'ambiente.

Anche in questo caso la prevenzione rappresenta la fase più importante per la razionalizzazione del sistema. Ridurre la plastica è un traguardo non troppo complesso che passa per azioni semplici con un grande risultato ambientale: bere l'acqua del rubinetto, acquistare prodotti sfusi o alla spina, evitare prodotti usa e getta, usare buste durevoli invece dei sacchetti monouso.

 

3.  Aumento del cibo esotico. Cosa è cambiato?

 

Se gamberi che vi apprestate a cucinare sono stati pescati in India, confezionati in Scozia, distribuiti in Sicilia siete di fronte al problema!

Secondo Coldiretti, ogni pasto in media percorre quasi 2.000 km prima di arrivare sulle tavole degli italiani!

Fino all'era industriale il cibo consumato veniva prodotto per lo più "dietro l'angolo", cioè proveniva da allevamenti, mari e terreni vicini al consumatore, oggi, invece, con l'avvento delle multinazionali, il processo di produzione degli alimenti è sempre più dislocato in vari Paesi del mondo, con il risultato che buona parte del cibo che consumiamo quotidianamente proviene dall'estero, basti pensare, ad esempio, agli asparagi prodotti in Cile o alle carote importate dal Sud Africa. Questi metodi di produzione dislocati tra vari Paesi hanno come risultato un peggiore sfruttamento delle risorse naturali (ed umane) nonché una peggiore qualità dei cibi prodotti.

Per esempio tra il 1980 e il 2006, il volume di totale delle esportazioni di carne è triplicato. Le esportazioni di prodotti lattiero-caseari sono più che raddoppiate e le esportazioni di uova sono quasi raddoppiate. Nel 2006 le esportazioni di carne ammontavano a 32.1 milioni di tonnellate mentre quelle di prodotti lattiero caseari a 90 milioni di tonnellate.

Prodotti come vino australiano, prugne cilene e carne argentina o brasile, i pomodori dalla Cina, l'uva dal Sudafrica che devono percorrere migliaia di chilometri prima di giungere sulle nostre tavole possono essere validamente sostituiti da prodotti "nostrani": l'Italia vanta oltre 400 vini nazionali doc, docg e igt, ha il primato europeo nella quantità, varietà dell'ortofrutta e per quanto riguarda la carne non mancano prestigiose razze storiche (come la Chianina). Peraltro l'impatto ambientale aumenta in modo particolarmente significativo se i prodotti vengono importati per via aerea. Inoltre, in aggiunta al trasporto dei prodotti, un aumento rilevante dell'impatto è causato dalla coltivazione in serra. Per fare un esempio, la coltivazione in serra di pomodori consuma 70 volte più CO2 rispetto alla normale coltivazione in campo.

Il modello agroalimentare industriale moderno, che si è affermato negli ultimi 50 anni, ha prodotto un'aumentata produttività nel breve termine, ma anche un impatto ambientale i cui effetti saranno devastanti per moltissimo tempo: inquinamento, erosione del suolo, danni al paesaggio, riduzione delle risorse energetiche, perdita della diversità, sia biologica sia culturale.

Il nuovo modello ha determinato che la produzione agricola abbia assunto le caratteristiche dell'industria, diventando industria agroalimentare. Le caratteristiche distintive di questo sistema sono: il crescente utilizzo di derivati del petrolio (fertilizzanti e pesticidi, carburante per le attrezzature agricole), la produzione limitata a certe varietà vegetali e poche razze animali, la diffusione delle monoculture, soprattutto per la produzione di mangimi.

Secondo nuovo modello dominante le risorse naturali (come l'acqua, il suolo e le foreste) sono considerate semplici materie prime consumare e trasformare su vasta scala con uno sfruttamento indiscriminato che non tiene conto della loro limitatezza.

L'agricoltura e la deforestazione

Dopo la produzione di energia, l'allevamento è la seconda causa di cambiamento climatico.

Il cambio d'uso del suolo, dominato dalla deforestazione a scopo agricolo, possiede anch'esso un ruolo importante nei cambiamenti climatici in atto pesando per il 12% sulle emissioni globali. Globalmente ogni anno, in quest'ultimo decennio, circa 13 milioni di ettari di foresta sono convertiti ad altri usi o perduti.

Non solo ma il settore zootecnico è il più grande utilizzatore di suolo del mondo. Il disboscamento delle foreste per convertire i terreni in pascoli rappresenta un serio problema ambientale in molte aree del mondo. La produzione di alimenti di origine animale infatti è nettamente sfavorevole anche in termini di superficie arabile richiesta per anno, essendo pari a circa 20 m2 per ogni kg di carne di manzo e appena 0,2 m2 per kg di patate

Attualmente gli ecosistemi forestali nel mondo coprono il 31% della superficie terrestre e si tratta di oltre 4 miliardi di ettari, che corrispondono ad una media di 0,6 ettari pro capite. Le cinque nazioni più ricche di foreste (Federazione Russa, Brasile, Canada, Stati Uniti e Cina) coprono per più della metà il totale delle aree forestali presenti sul nostro pianeta.

Tante altre risorse naturali - e relativa filiera produttiva - collegate al settore alimentare hanno un forte impatto sull'ambiente, in particolare sulle foreste. Per esempio, le importazioni italiane di caffè (circa 470mila tonnellate nel solo 2008) gravano sull'ambiente con 1.400 milioni di metri cubi acqua, circa 4 milioni di tonnellate di CO2eq, 1,6 milioni di ettari l'anno - ovvero più della superficie dell'intera Calabria -  700mila tonnellate di materiali biotici e 6,5 milioni di tonnellate di materiali abiotici. In generale, per produrre un chilo di caffè sono necessari 12-14 mq di terra arabile, mentre sono circa 10 milioni gli ettari di terra destinati globalmente alla coltivazione del caffè. Tra i principali danni ambientali c'è ovviamente il taglio delle foreste pluviali.

Altro esempio importante è quello dell'olio di palma importato in Italia (nel 2010 sono arrivate circa 1.100.000 tonnellate di olio grezzo) che richiede un consumo di 410 milioni di metri cubi di acqua, 2 milioni di tonnellate di CO2eq, 210mila ettari di terreno l'anno - un'area grande quanto la provincia d'Ancona - circa 3 milioni di tonnellate di materiali biotici e circa 1,2 milioni tonnellate di materiali abiotici. La gran parte dell'olio di palma giunge nel nostro Paese da Indonesia (71%), Malesia (13%), Thailandia (7%), Papua Nuova Guinea (6%) e viene utilizzato per i biocarburanti (185mila tonnellate), per i prodotti chimici organici (115 mila tonnellate), per le margarine (50mila tonnellate) e circa 200mila tonnellate complessive per prodotti il cui contenuto non è facilmente determinabile (cibi contenenti grassi vegetali, saponi e cosmetici). Una 'zavorra ecologica' in aumento se si considera che la produzione mondiale di olio di palma negli ultimi 30 anni è passata da 4,9 a 49 milioni di tonnellate e che rispetto al 2000 ci si aspetta una crescita della domanda del 100% nel 2020 e del 200% nel 2050, anche a causa degli investimenti dei produttori di biodiesel.

I principali danni ambientali e sociali collegati alla sua filiera produttiva sono: deforestazione, la perdita di habitat, erosione e degrado del suolo, inquinamento chimico delle acque e dispersione di pesticidi che giungono sino agli ecosistemi marini, sfruttamento e distruzione degli stili di vita delle popolazioni indigene. Le aree più colpite sono: Borneo, Sumatra, Papua Nuova Guinea, Amazzonia, Bacino del Congo.

L'agricoltura e Il degrado del suolo

Il degrado del suolo è uno dei problemi più seri che l'agricoltura moderna si trova ad affrontare.

Secondo la Fao, se da un lato negli ultimi 50 anni si è registrato un notevole aumento della produzione mondiale, dall'latro in troppe occasioni tali miglioramenti sono stati accompagnati da pratiche di gestione delle risorse che hanno degradato gli ecosistemi terrestri e idrici dai quali la produzione alimentare stessa dipende.

Ad oggi un numero elevato di ecosistemi è esposto al rischio di un progressivo deterioramento della loro capacità produttiva, a causa dell'effetto congiunto di un'eccessiva pressione demografica e di usi e pratiche agricole non sostenibili. Tra il 1961 e il 2009, la superficie mondiale coltivata è si è estesa del 12%, ma la produzione agricola è cresciuta del 150%, grazie ad un notevole aumento dei raccolti delle colture principali. ll 25% percento della superficie agricola mondiale è degradata (Fao, 2011), dove per degrado si fa riferimento non solo al semplice degrado del suolo e delle risorse idriche ma include anche altri aspetti degli ecosistemi colpiti, come ad esempio la perdita di biodiversità.

Se da un lato sono necessari da 20 a 1.000 anni per la formazione di un centimetro di suolo, l'allevamento di animali è uno dei fattori che più contribuiscono maggiormente all'erosione. Quando un pascolo è sovrasfruttato, il bestiame con gli zoccoli compatta il suolo e strappa la vegetazione che tiene assieme il terreno, diventando così causa di erosione. Nel caso dell'allevamento intensivo, invece, il suolo viene eroso perché le coltivazioni per la produzione di mangimi, necessari a mantenere quest'industria, richiedono grandi estensioni di terreno coltivabile.

La minaccia maggiore associata al degrado del suolo è perdita di biodiversità e l'esaurimento delle risorse idriche.

Un esempio estremo di degrado del suolo è il fenomeno noto come desertificazione. L'agricoltura può contribuire alla desertificazione sia direttamente, tramite pratiche agricole dannose come la coltivazione intensiva, sia indirettamente, attraverso la deforestata per creare nuove terre coltivabili o nuovi pascoli per il bestiame.

Perché l'insicurezza alimentare e la sottonutrizione possano diminuire in maniera duratura, la produzione agricola dovrà affrontare un miglioramento produttivo sulle terre già attualmente a coltura, attraverso una gestione più sostenibile che riduca gli sprechi e faccia un uso efficiente delle risorse idriche e del suolo, senza comprometterne la rigenarazione.

L'agricoltura e l'Inquinamento chimico

Sono moltissime le circostanze in cui l'agricoltura fa ricorso ai prodotti chimici di sintesi: per la difesa delle piante e delle produzioni dai parassiti, per il controllo delle erbe infestanti, per la fertilizzazione del terreno. Sono innegabili i vantaggi in termini di aumento delle produzioni, di contro il loro uso e "abuso" si trasforma in un grave danno sul lungo periodo per l'ambiente e per la stessa salute dell'uomo.

In particolare, la categoria dei pesticidi, che comprende un gruppo ampio e diversificato di sostanze utilizzate per prevenire, allontanare o uccidere insetti, funghi, erbe indesiderate, costituisce un grosso fattore di rischio per la salute umana e l'ambiente, poiché le loro caratteristiche le rendono particolarmente pericolose. Si tratta, infatti, di sostanze persistenti, in grado si resistere alla degradazione e permanere nell'ambiente per lunghi periodi di tempo, risultando tossiche per l'uomo, la fauna e flora selvatiche. Per il loro elevato grado di liposolubilità (affinità per i tessuti grassi), si accumulano negli organismi viventi, tra cui l'uomo, i mammiferi marini e numerose altre specie selvatiche. Si assiste a fenomeni di biomagnificazione nelle specie ai vertici delle catene alimentari.

Anche i fertilizzanti soprattutto a base di azoto e fosforo hanno un impatto molto grave sull'ambiente.

Alterazione ciclo dell'azoto

Il ciclo naturale dell'azoto viene sconvolto dalla scoperta della sintesi dell'ammonica (1913) e dalla successiva industrializzazione nel 1960. Da allora la produzione di forme reattive di azoto come fertilizzante è cresciuta in maniera esponenziale. I fertilizzanti azotati, ottenuti tramite procedure industriali, sono la principale fonte di origine umana di emissioni di ossido nitroso. L'uso eccessivo di fertilizzanti azotati, determina un ingente flusso di azoto in entrata nel ciclo biogeochimico che non viene compensato dalla rimozione tramite i processi di denitrificazione. La massiccia introduzione negli ecosistemi di forme reattive dell'azoto su scale temporali molto ristrette, ha già mostrato diverse conseguenze negative sia su scala locale sia su scala globale: eutrofizzazione di laghi, fiumi e acque costiere con fioriture algali e diminuzione della concentrazione di ossigeno nell'acqua; elevata concentrazione di ossidi di azoto nell'aria; presenza di nitrati nelle acque potabili a concentrazioni pericolose per la salute umana.

Alterazione ciclo del fosforo

Il fosforo è un altro elemento essenziale per la vita ed è presente negli acidi nucleici, nelle membrane cellulari, nei sistemi di trasferimento dell'energia. Il ciclo del fosforo comincia quando i composti del fosforo vengono ceduti dalle rocce e dai minerali. Poiché il fosforo non ha forme atmosferiche, viene trasportato in forma acquosa e assorbito dagli organismi produttori, incorporato in molecole organiche e poi passato ai consumatori. L'eccesso d fosforo nell'ambiente introdotto con i fertilizzanti ha effetti drammatici sugli ecosistemi acquatici: l'eccesso di fosfati può stimolare crescite esplosive di popolazioni di alghe e batteri fotosintetici, sconvolgendo così l'equilibrio dell'ecosistema.

Breve storia dei pesticidi: dal DDT alla sporca dozzina

La storia dei pesticidi è sicuramente segnata da un coleottero (la Doriphora decemlineata, flagello degli agricoltori) contro il quale l'industria non chiedeva altro poter aprire un nuovo mercato, quello degli insetticidi. Nel 1939 Il chimico svizzero Paul Hermann Müller sintetizza il DDT. Molto probabilmente il DDT aveva fatto la sua prima apparizione nei laboratori del Prof. von Bayer dell'Università di Strasburgo per opera di un dottorando austriaco, Othmar Zeidler, che lo sintetizzò a partire da clorobenzene e cloralio (CCl3-CHO). Zeidler dedicò al nuovo composto poche righe in una pubblicazione del 1874, senza sospettare che la sua reazione chimica sarebbe diventata il processo base per la produzione industriale di DDT. Paul Müller svelerà le potenti proprietà insetticide del DDT e questa scoperta gli valse nel 1948 il Premio Nobel in Fisiologia e Medicina. Il nuovo insetticida si rivelò così efficace da venire subito brevettato (1940) e commercializzato (1942). Dalla Svizzera ha girato il mondo, sia intenzionalmente laddove se ne richiedeva l'uso, sia accidentalmente per la sua inerzia chimica, spingendosi fino al Polo Nord, sospinto dai venti e dalle correnti marine. Intenzionalmente la prima volta che il DDT oltrepassò l'oceano è nel 1942, per raggiungere gli Stati Uniti, che erano alla ricerca di un'arma per difendere le truppe dalle malattie tropicali trasmesse dagli insetti. Dopo la guerra, il DDT conosce successi spettacolari nel controllo di malattie che vengono trasmesse dagli insetti, come il tifo, la malaria e la febbre gialla. Negli anni '40 e '50, è il pesticida clorurato più usato, pratica protratta estesamente anche in Italia con la prima campagna intrapresa a Napoli per scongiurare un'epidemia di tifo. Oltre 3 milioni di individui, fra civili e militari, vennero trattati con l'insetticida. Il DDT acquistò la sua reputazione di "insetticida miracoloso". Dalle campagne il DDT si sposta all'interno delle abitazioni per proteggerle dagli insetti comuni, come le mosche. Presto sorgono i primi problemi: (1) certi insetti sviluppano resistenza al DDT; 2) l'insetticida persisteva nell'ambiente (nel 1950, la Food and Drug Administration dichiara che "con ogni probabilità i rischi potenziali del DDT erano stati sottovalutati"). Nel 1962, un'attivista ambientalista americana, Rachel Carson, pubblicò il libro Silent Spring (Primavera silenziosa) denunciando l'uso indiscriminato dei pesticidi e il problema del trasferimento di composti bioaccumulabili come il DDT e gli altri composti organoclorurati dall'ambiente agli organismi. La Carson denuncia il DDT come composto cancerogeno e nocivo nella riproduzione degli uccelli dei quali assottigliava lo spessore del guscio delle uova. "Su zone sempre più vaste del suolo statunitense, la primavera non è ormai più preannunziata dagli uccelli, e le ore del primo mattino, risonanti una volta dal loro bellissimo canto, appaiono stranamente silenziose" scriveva la Carson. Il libro causò clamore nell'opinione pubblica; il risultato fu che nel 1972 il DDT venne vietato per l'uso agricolo negli USA e si assistette alla nascita del movimento ambientalista. Nel 1972, il DDT viene proibito negli Stati Uniti e solo nel 1978 anche in Italia. Ma molti effetti cronici, tra i quali l'interferenza con i sistemi di regolazione ormonale, sono venuti alla luce in anni più recenti. Il libro "Our Stolen Future" del 1996 di Theo Colborn, Dianne Dumanoski, John Peterson Myers racconta come le sostanze chimiche prodotte dall'uomo minaccino la nostra fertilità, l'intelligenza e la sopravvivenza . Nel 1992, nel corso dell'Earth Summit a Rio, con l'adozione dell'Agenda 21, è stato dato l'avvio a una serie di accordi intergovernativi, culminati poi nella Convenzione di Stoccolma (22 maggio 2001), volti a intraprendere tutte le misure necessarie per eliminare o ridurre a livelli non pericolosi le emissioni dei composti chimici nell'ambiente. Il trattato globale mette al bando l'uso del DDT e di altre 11 sostanze persistenti nell'ambiente conosciute come POP (Persisten Organic Pollutants). Il Trattato internazionale individua una prima lista di POP comprendente 12 sostanze o classi di sostanze tossiche tra le 9 pesticidi (aldrin, lordano, DDT, dieldrin, endrin, eptaclorobenzene, esaclorobenzene, mirex e toxafene), sostanze chimiche industriali e 2 gruppi di prodotti e sottoprodotti della combustione emessi non intenzionalmente (PCB, diossine e furani) di cui viene prevista la loro graduale eliminazione. Dopo anni di strenui negoziati, questo importante accordo internazionale nella lotta contro le sostanze più dannose è entrato in vigore il 17 maggio del 2004, grazie alla ratifica del 50esimo paese firmatario della Convenzione (Francia). Sempre più ricerche scientifiche dimostrano come i POP appartengano alla categoria dei distruttori endocrini, ovvero sostanze in grado di mimare gli effetti degli ormoni endogeni o di interferire con il loro meccanismo d'azione.

Cos'è l'agricoltura biologica

L'agricoltura biologica è un metodo di produzione definito e disciplinato a livello comunitario dal Regolamento CE 834/07, dal Regolamento di applicazione CE 889/08 e, a livello nazionale, dal D.M. 220/95.

L'agricoltura biologica non prevede l'utilizzo di sostanze chimiche di sintesi (concimi, diserbanti, anticrittogamici, insetticidi, pesticidi in genere), nè Organismi Geneticamente Modificati (OGM). La difesa delle colture avviene innanzitutto in via preventiva, selezionando specie resistenti alle malattie e intervenendo con tecniche di coltivazione appropriate tra cui:

  • la rotazione delle colture, che evita di coltivare per più stagioni consecutive la medesima pianta sullo stesso terreno;
  • la creazione di siepi che ricreano il paesaggio, fornendo ospitalità ai predatori naturali dei parassiti e costituendo una barriera fisica a possibili inquinamenti esterni;
  • la consociazione, ossia la coltivazione contemporaneamente di piante diverse, l'una sgradita ai parassiti dell'altra.

In agricoltura biologica si usano fertilizzanti naturali come il letame ed altre sostanze organiche compostate e sovesci, ossia si incorporano nel terreno piante appositamente seminate, come trifoglio o senape.

In caso di necessità, per la difesa delle colture si interviene con sostanze naturali facendo ricorso esclusivamente alle sostanze autorizzate e dettagliate dal Regolamento europeo.

Mangiare può diventare un gesto ecologico

10 suggerimenti per un'alimentazione a minore impatto ambientale. 

Il riscaldamento globale, la desertificazione e la perdita di biodiversità sono solo alcuni dei cambiamenti che il Pianeta sta subendo principalmente a causa delle attività dell'uomo.